tratto dal periodico "Lo Strillo"
di Renato Catania Poveri ma con la Griffe Intervista a Paolo Boggi “Io penso che i napoletani, rispetto al resto degli italiani, siano particolarmente diversi. Questo si nota quando emigrano e riescono a mostrare il lato migliore, che si manifesta in genialità, intelligenza, simpatia e tanto altro. Emergono! Nel bene e purtroppo qualche volta nel male. Le terre del sud sono terre pensanti, che hanno una spiccata dimensione teologica. Il miracolo, la religiosità, anche se non ci credono, il sangue di San Gennaro. Una grandissima virtù che non sarà mai avida, severa, come cita Bocca nel suo libro, dove appunto girando per Napoli, si rivolgeva all’assessore al traffico dicendo: - ma tu perché mi fai posteggiare dove c’è il divieto? E lui - adda i accussì”. Comincia così la conversazione tra me e Paolo Boggi, arcinoto imprenditore salernitano trapiantato a Milano e fondatore di una prestigiosa catena di negozi di abbigliamento, che iniziata da questa generosa città, ha potuto espandersi, portando competenza, gusto e raffinatezza. - A Milano, con i suoi negozi e la sua intraprendenza, aveva sfondato, e mi sono chiesto perché ha deciso di abbandonare? “Ho smesso nel 2003. La decisione è maturata dopo l’attentato a New York dell’11 settembre del 2001. Vedevo e pensavo che da quel momento sarebbe stata la fine di un certo capitalismo. Mi sono detto: non ho figli, non me la sentivo di ricercare persone che potessero credere nel mio modello e nella mia visione economica. Ormai si va appresso alla marca, alla moda del momento. È un fenomeno tutto italiano. A Parigi non è così, la mentalità dell’italiano è la marca e la firma. Si comincia a parlare di sobrietà, a causa della crisi del credito e della liquidità, che secondo me è pilotata. Quelli a cui ho ceduto hanno proseguito ad aprire nuovi negozi, ne possiedono circa 80. Noi puntavamo sul numero dei capi venduti, al contrario di quello che si fa solitamente nel commercio, guardano gli incassi. Io ero contento se incassavo meno, ma vendevo un capo in più. Quello che deve crescere è il numero di consumatori. Il Mondo ormai è aperto. Se scendiamo in San Babila, ci accorgiamo che ci sono 70 comunità mondiali. Questo salverà il mondo. Dobbiamo, però, integrarli ed educarli, ma soprattutto cavalcarli. Ognuno di noi è allo stesso tempo produttore e consumatore, cliente e venditore e compratore. Quello che non vuol capire una certa “ destra” è che se tu ad un operaio consenti di poter acquistare un’ automobile, nel senso di renderlo compratore di un’ auto, devi integrarlo e coinvolgerlo nel sistema economico. Gli immigrati li vedo come persone che vengono a rendere più grande un Paese”. - Perché nel suo ultimo libro “Poveri con la griffe” ha sentito la necessità di esternare critiche alle grandi firme della moda italiana? “Non si può certo dire che le firme siano un danno, ma sicuramente un apporto. La mia critica parte verso tutto ciò che si sovrappone su un prodotto e lo rende come predominante di entità. In sostanza non posso accettare che si sacrifichi una cultura, nel senso che se uno va in giro con una “porsche” è intelligente, protagonista ecc. oppure se indossa abiti firmati da stilisti famosi e per il solo fatto che porta in giro una patacca, possa essere benvoluto, stimato, temuto e accettato. Questa è la mia critica: “poveri con la griffe”, poveri di mente. Si può anche guadagnare 1 milione al giorno e non ritenere di spendere 800 euro per una giacca. Posso anche farlo,ma non mi devo illudere che con quella giacca io possa essere protagonista. Chi è amante del bello, della qualità, è persona di valore a prescindere dalla smania di apparire. Posso essere capace di stabilire la qualità di un vino, ma non devo necessariamente sapere che vino sia per dichiarare che è buono. Il problema del modello che sta a causa di tutto è che avendo messo al centro il denaro, debba essere conquistato a tutti i costi per ricevere privilegi, onori e dignità, lasciando fuori l’intelligenza”. - Secondo lei, c’è un’alternativa possibile? “Certo! Io trovo che l’alternativa possibile sia lavorare sul controllo della corruzione, del credito, della distribuzione. Sono del parere che se lei produce cravatte di sostanza e pregio, ha diritto di produrle ed avere credito, ma il denaro lei lo deve pagare molto di più di quello che fa cravatte economiche. È qui il punto. Io devo tagliare dove si creano germi di un cattivo sistema. L’editoria va aiutata, ma io non posso finanziare l’editoria del gossip, per nutrire le agenzie di pubblicità. Se l’economia di un Paese vuole dare lavoro, nelle strutture pubbliche c’è molto da fare: strade, ponti, scuole, ma io non devo dare credito al signor Montezemolo, il quale mi va a comprare il maglificio decaduto in Scozia. Come il signore Della Valle che fa una scarpa da 16 euro, la porta a 300 euro e sulle vetrine scrive: “sogno italiano”. Va in televisione e viene intervistato come illuminato imprenditore. Illuminato imprenditore è un Ikea, che posizionato in autostrada induce a dire: “mamma mia, qui c’è la base di tutto l’esercito americano e fa mobili per la povera gente, che quando regala un giorno d’incasso, distribuisce milioni di euro. Questi sono gli angeli del nostro tempo. La Cina sta facendo questo. La Cina sta equiparando tutto. La produzione cinese nel mondo è una garanzia, perché la Cina, non guadagna in quanto paga il lavoro a basso prezzo, guadagna sulle grandi produzioni.” - Quale collocazione lei ha avuto nell’ambito della moda italiana? “Ho trattato sopratutto il classico. Avevo la mia abilità che era riconducibile al buon gusto, alla tradizione anglo-americana, sopratutto inglese, riuscendo ad offrire un coordinamento di colori. Forse sono stato il primo a portare un certo gusto meridionale-inglese di creazione vera e propria. Ho scoperto tessuti indiani come il madras, la giacca decostruita (Armani dice che l’ha fatta lui) l’ho fatta io. Quello di cui mi posso gratificare è di aver capito che si può vendere un ottimo prodotto senza grandi investimenti pubblicitari, ma tenendo un buon assortimento con la convinzione di lavorare sul potere d’acquisto. Fin da quando ero piccolo mi sono preoccupato di crescere, sul potere d’acquisto. Quando ho venduto,i negozi erano 31”. - Com’è riuscito ad affermarsi ed espandersi nell’ambito dell’abbigliamento. Essendo lei figlio del Sud? Ha fatto anche lei la gavetta? “La mia fortuna è iniziata prima di prendere il primo negozio, con un vecchio agente inglese, che aveva cose di cachemire, tessuti per cravatte, pelle scamosciata, fior di daino. Mi portava con se facendomi conoscere i vecchi nomi: i Guffanti di Torino, I Dell’Oglio di Palermo, Battistoni. Assorbivo dai maestri dell’abbigliamento, che servivano poche grandi famiglie, che avevano il vezzo di vendere il pullover e la marmellata inglese. Il contatto con queste persone e sopratutto il contatto con l’industria che mi portava a conoscere più chi faceva le cravatte che chi le distribuiva”. - Mi sta dicendo che la sua ispirazione nel dare vita alla sua attività l’ha attinta dall’Inghilterra e dal modo di vestire inglese? “Si! l’Inghilterra è stata la mia ispirazione. L’ho sostenuto in due mie pubblicazioni: tutto parte dall’Inghilterra. L’abbigliamento da uomo, oggi, parla inglese. Noi per una vita abbiamo comprato il “Barbour”, il cappotto con la manica raglan, il cardigan,i tessuti. I signori Loro Piana e Zegna, vengono da lì. L’inglese faceva il cappotto di cammello, prima dell’Unità d’Italia”. - Dalla sua grande esperienza nell’ambito dell’abbigliamento, acquisita in molti anni di attività, ha sicuramente compreso quali sono le regole fondamentali per sentirsi in linea con i tempi, ce li descrive? “Noi italiani siamo sempre stati ammirati dagli inglesi e dagli americani per il taglio delle nostre confezioni ed abbiamo dato lezioni a tutto il mondo. Lo stesso Principe di Galles venne in Italia a farsi confezionare gli abiti da Caraceni. Abbiamo preso molto dall’Inghilterra, ma l’abbiamo portato alla nostra dimensione arricchendolo di fantasia e di colore. Ci siamo ispirati a loro per la sahariana italianizzandola. Siamo i migliori. I cinesi dell’ Occidente siamo noi. Come per i jeans, in gran parte dell’America lo compri a gettone. Da noi il primo lo indossò il principe Ruspoli, una sera a Saint Tropez. Lo portava l’avvocato Agnelli. Noi abbiamo questo modo di nobilitare”. - Progetti? “Mi sto divertendo a scrivere storie di amici, che mi stanno riportando indietro negli anni, facendomi assaporare situazioni ed accadimenti particolari”. - Un appunto non molti sanno che Paolo Boggi è stato il fondatore dell’Elba Jazz Festival (l’ho scoperto anch’io dopo che me n’ero andato dal suo salotto) che ha annoverato tra i partecipanti i migliori nomi del settore e ripreso da un blog riporto una sua dichiarazione con la quale chiudo l’intervista: “Elba jazz è un dono, è il segno della mia gratitudine nei confronti di un isola stupenda. “Ho scelto la musica dal vivo per quella magia che sa creare e in particolare il jazz che è un linguaggio di cultura e armonia, un canto dell’anima. La storia di Elba Jazz è solo all’inizio”. La Fashion è anche musica. |
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