CHIACCHIERANDO CON ALBERTO ANELLI POLIEDRICO AUTORE DI BRANI DI GRANDE SUCCESSO
L’IMPORTANTE E’, E’… LA MUSICA di Renato Catania tratto dal periodico "Lo Strillo" Da qualche anno ero incuriosito dal musicista Alberto Anelli, personaggio che attraverso i media è sempre apparso serioso e poco avvezzo a farsi notare. Ho scoperto che l’essere eclettico e raffinato gli ha consentito di cimentarsi in generi musicali differenti, firmando successi che si protraggono nel tempo. Il caso me l’ha fatto incontrare e dopo una chiacchierata preliminare, ho scoperto il vero animo di un artista, che senza compromessi, ma seguendo la sua sperimentazione musicale, ha saputo mostrare una personalità variegata. Nel salotto della sua bella casa, dopo esserci scambiati opinioni e qualche innocente “gossip”, abbiamo deciso di affrontare una chiacchierata dal sapore intervistatore: - Se dovesse definirsi come artista e musicista, in quale fascia si porrebbe? Assolutamente “pop” che sta per popolare, no “rock”. Amo le musiche che arrivano al cuore. Mi viene in mente un’intervista fatta a Baudo, nella quale, il giornalista lo definì, a ragione, nazionalpopolare, ma lui si offese come punto nel suo orgoglio di non si sa cosa. - D’altro canto è impensabile che un musicista possa ambire a essere ascoltato solo da un’elite. La musica è tutta bella. Piuttosto esistono tanti fattori che la fanno comprendere, tale, secondo il gusto musicale di chi l’ascolta. Condivido pienamente! - In Italia, la crisi discografica, ha causato uno stravolgimento delle dinamiche, sia in termini di vendita di dischi, che per cambio generazionale di stili musicali. I musicisti come lei come si confrontano con tal evoluzione? Sicuramente, da un decennio abbondante c’è stata una rivoluzione musicale abbastanza forte. C’è l’avvento, specialmente in questi ultimi anni, del “rep”, che ritengo, stia creando danni che si manifesteranno fra qualche tempo. In questo caso, non si tratta di parlare di bello o di brutto: Innanzi tutto il “rep”, non è nella nostra cultura musicale e sociale, perché nascendo dalla protesta dei ghetti americani, è lontana anche dalle nostre eventuali proteste generazionali, per cui non c’entra niente. Fondamentalmente veniamo da una cultura ottocentesca della musica. Siamo un popolo di melodiosi. In questi ultimi anni, tutto questo non sta più avvenendo e nei fatti si nota. Se consideriamo che anni fa, grazie anche a Sanremo, le nostre canzoni erano esportate; se pensiamo “Alla fine della strada”, “Gli occhi miei”, “Volare”, “Amore scusami”, erano tutte canzoni seguite e cantate anche all’estero; Donaggio, con “Io che non vivo” e molte altre. Tutto ciò era un grande conforto per la musica italiana. Non accade più, perché i nuovi musicisti, le nuove generazioni, non hanno fatto esperienza di quello che è stato. Hanno pensato di stravolgere tutto con esiti poco brillanti. Sono alla finestra a guardare. Per ciò che mi riguarda, quello che dovevo dimostrare l’ho già fatto, ma mi sento sconsolato. - Intanto, in Italia, si seguono le mode degli altri Paesi, con scarsi risultati. Secondo me, ci sono autori talentuosi, solo che i veicoli della musica sono la televisione e la radio, nella prima, vigono i sistemi santi in paradiso, politici e…, la seconda è volta a raccogliere indici di ascolto, per avere più pubblicità possibile e trascurano, durante la trasmissione, l’identificazione del “pezzo”. Trasmettono a ruota libera e l’ascoltatore non sa cosa ascolta. Uno dei peccati originali della nostra crisi, che risale agli anni 1978/80, è determinato, contrariamente alla Francia, dal fatto che non esiste una legge che obbliga le radio private a trasmettere il 60% del prodotto nazionale e il 40% di quello straniero. Apprezzo la buona musica straniera, ma non ammetto che la divulgazione della musica italiana debba soccombere per “misteriosi” motivi opportunistici. - Per le radio esiste un predominante discorso economico, per il quale il proprietario del pezzo musicale, per ascoltarlo alle radio deve pagare. Vede? È proprio questo il punto, se vigesse la regola francese, la ricerca dei pezzi sarebbe tutta a vantaggio della qualità. - La sua carriera musicale, l’ha vista cimentarsi con musiche da lei composte, per giovanissimi (Lo zecchino d’oro con Il caffè della Peppina). L’importante è finire per Mina, di forte impatto. Il suo animo artistico come coniuga tale ampiezza di generi? Me lo sono chiesto molte volte. Posso definirmi eclettico, variopinto? Non so. Può essere stato un mio “handicap”. So di aver fatto una scelta. All’inizio della mia carriera di musicista, sentivo che potevo scrivere di tutto, era sufficiente che riscontrasse la mia vena di autore, auspicando che piacesse alla gente. È stato così. Non mi sono mai posto paletti. - Per tornare “Allo zecchino d’oro”, che mi ha stupito. In quale stato d’animo era quando ha musicato “Il caffè della Peppina”? Certo, quando ti propongono un testo, che in questo caso consiste in una filastrocca, entri nel mondo dei ragazzi, per cui vai a vedere. Ho pensato: se la facessi a ritmo di tango, ai bambini potrebbe piacere? Se avessi dovuto limitarmi a musicare una filastrocca, sarebbe stato, per me, difficoltoso. Averla musicata a ritmo di tango, ne ha consentito il successo. Non dimentichiamo che dal 1971 è ancora oggi ascoltata. Il testo, ha contribuito ad amalgamare tutto. Il mio sistema di composizione è quello che deve essere proprio il testo a ispirarmi la composizione (non molti musicisti lo fanno). A quel punto faccio ricorso alla fantasia che mi consente di accompagnare il senso del testo, come un pittore davanti a una tela bianca può rimanere perplesso, ma quando si attiva il suo estro, parte sicuro. - A proposito di “Importante è finire”, che credo sia stato il pezzo che più l’ha identificata, può parlarmene? Il pezzo che mi ha fatto conoscere, al pubblico è stato “Tu sei quello” di Orietta Berti. Per un bel po’ di anni è stata la mia felicità, per un verso, una specie di dannazione per un altro. In quel periodo feci due pezzi, fra cui “Tu sei quello”, poi Orietta intraprese una strada più leggera, e mi trovai a essere l’autore che scrive per la Berti. Questo mi dispiacque, perche non mi sentivano autore di filastrocche. È stata la sua scelta che le ha dato risultati sia economici sia d’immagine. Quando si creò la situazione de “l’importante è finire”, anche lì sul testo, mi dissi: se voglio ritornare al mio esordio, questa è proprio all’antitesi, siamo proprio in un’altra dimensione. Sarò capace di stravolgermi musicalmente? Era una sfida. Ci ho provato ed è andata bene. Volevo dimostrare a me stesso e gli altri di sapere comporre altro. - Si può dire che ha scoperto una parte di sè, che aveva la necessità di emergere? Si! Sa cos’è? Molte volte e ne parlavo proprio con la Berti, quando c’è un successo su una canzone, gli “strali” vanno tutti nella stessa direzione: ci vuole il momento giusto, il cantante giusto, la canzone giusta, le parole giuste, l’arrangiatore giusto, la combinazione giusta: il successo è questo. - In una nostra precedente conversazione mi ha rivelato che il suo metodo compositivo si distanzia dai consueti dei suoi colleghi, perche lei trae l’ispirazione compositiva dal testo che le è proposto. Ci spiega questa dinamica? Devo prima ingoiarlo, digerirlo e ritirarlo fuori: è proprio una gestazione. Dico che le canzoni sono come figli, che come figli, nella vita, possono avere successo, mentre altri, pur essendo belli e talentuosi, avrebbero potuto vincere il titolo di”mister universo”, invece no. Perché? - Esiste un autore di testi che più si adatta alla sua sensibilità musicale? Qui andiamo sul complicato: autore di testi, più che autore di testi, ci sono certi autori di testi che mi avrebbero stuzzicato: De Andrè, Testa, Mogol. In assoluto, un autore che ho molto stimato, purtroppo non c’è più è Luciano Beretta. Con Luciano ho scritto “Tu sei quello”. In quel caso non ho scritto sul testo. Avevo una musica, dove ho lavorato molto. Lui abitava a Piazzale Bottini a Lambrate. La casa discografica, che era la Fonogram, mi ha mandato da lui. Allora non possedevo l’auto, ero arrivato da un anno a Milano e mi ci sono recato in tram. Mi ricordo che bussai alla porta di questa casa al primo piano, mi aprì la mamma, una signora, tipicamente milanese, mi fece accomodare. Beretta era già un autore di successo, per cui provai una certa soggezione. Lui era stato avvisato chi avesse scritto quella musica, gli chiesero se fosse disposto a scriverne il testo. Ci siamo messi in camera sua ad ascoltare. A un certo punto si assentò, perché l’aveva chiamato la Bianca Toccafondi, attrice di teatro e la donna di Giorgio Albertazzi. Sentivo che diceva: “Sì, sì perché tu sei quello”. Lei diceva, l’ho saputo dopo: “Perché tu sei quello che mi sa capire”. È tornato trionfante e disse: “ ho trovato il titolo, si chiamerà “Tu sei quello”. Da lì partì tutto. L’ispirazione di un momento, un dettaglio, che ti costruisce una storia. Nel giro di un paio di ore il Testo fu pronto. Ho fatto pochissime altre cose con lui, ma avrei dovuto ferne molte di più. Ho seguito la sua carriera. Luciano aveva già cominciato con Celentano, con il quale ha proseguito per molto tempo con pezzi di grande successo: “Il ragazzo della via Gluk”, “Svalutation”, “Chi non lavora non fa l’amore”, “24 mila baci”. Era sempre Luciano Beretta, aveva una fantasia sfrenata. Era un uomo dai 1000 interessi, di un garbato…anche se aveva dei problemi personali, non si era mai permesso d’importunarmi. Peccato non averlo frequentato come avrei dovuto e voluto. - Fra i cantanti italiani, chi ha meglio interpretato le sue intenzioni musicali? Contrariamente a quanti affermano di aver frequentato Battisti, io non l’ho frequentato. Ci conoscevamo perché avevamo lo stesso editore: Christine Leroux, in Corso Europa a Milano. Ho seguito tutte le sue evoluzioni musicali. All’inizio non aveva un paroliere. Uno del suo gruppo scriveva testi, un certo Roby Matano, che non era il massimo. Christine, tentò con Mogol, che lo prese sotto la sua ala. Mi ricordo un episodio della canzone: “Io vivrò”, che cominciava proprio così. L’editrice si accorse che mancava il cappello, all’inizio e introdusse “Non si muore per amore”… Battisti era molto timido. Non pensava di fare il cantante, ma aveva una voce particolare. Infatti, uno dei grossi problemi di oggi, che riguardano i reality musicali, è proprio questo: a che vale avere una voce gradevole se non hai un timbro riconoscibile? Un genere che non saprei fare è quello di Battiato, che mi diverte ancora. - Anche Battiato appare come un’anima tormentata, ma ritengo sia furbo nell’approccio con le canzoni: attinge molto dalla musica dei paesi arabi e porta in occidente un genere poco conosciuto, che ha il sapore della genialità. Io lo apprezzo perché quella di Battiato, non è un’operazione semplice. Ritornando a Battisti, utilizzava la cultura angla americana per trasportarla verso la comprensione italiana. - Lei ha lavorato con Malgioglio, paroliere fuori dai canoni consueti che ha scritto il testo de “L’importante è finire”, com’è nata la vostra collaborazione? Ero sotto contratto con la Curci, casa editrice in Galleria del Corso a Milano. In quegli anni ci s’incontrava tutti in Galleria del Corso. Un giorno nella sala d’aspetto della Curci incrociai Cristiano che mi disse: posso darle un testo da musicare? Mi diede un foglio di carta, vergato a mano, lo piegai in quattro e lo misi in tasca. Preso da altri impegni neanche lo lessi. Passati alcuni giorni mi chiamò a casa per chiedermi se lo avessi letto. Risposi di non averlo ancora fatto, quando mia moglie mi chiese chi fosse cui risposi che un tale mi aveva dato un testo da leggere. Lo leggemmo insieme, era un po’ fuori dai canoni. Volli provare e cominciai a lavorarci. Due anni prima avevo fatto un pezzo per Mina (Dichiarazione d’amore), era l’anno 1973. Il testo era di Vito Pallavicini, lo incise nell’album “Frutta e Verdura”. Un giorno, scendendo insieme a lei con l’ascensore, dal suo ufficio in via Senato a Milano, mi disse: - sai, mi piacerebbe fare una versione di “Tu sei quello” sul genere Elvis Presley. – Eppure sono sicura che un giorno mi farai un successo. Finì così. Tornando al testo mi dissi: questo sarebbe qualcosa che lei potrà cantare. Pensai a lei, solo esclusivamente a lei. Immaginai in quale maniera l’avrebbe cantata: una “beguine” con una ritmica diversa, tanto che la suonavo alla chitarra, tamburellando. Da lì nacque tutto! Mina mi chiamò comunicandomi: “Registrerò il pezzo mercoledì alle cinque pomeridiane. Se vuoi venire? Andai con mia moglie, alla Basilica, nella sala della chiesa sconsacrata, in Corso Italia. Arrivati, ci siamo messi di lato per non disturbare. Lei, la cantò una volta sola per scaldarsi, poi la ricantò, come la senti nel disco, senza stacchi. Io conosco la versione di Malgioglio dell’incontro con Mina, secondo me molto romanzata. Malgioglio mi raccontò che un giorno gli giunse una telefonata, prese il telefono e dall’altro capo sente: sono Mina. Al momento pensò a uno scherzo, ma dopo aver chiarito, gli fissò appuntamento alla Casa Discografica. Malgioglio arrivò in ritardo. Subì un aspro rimprovero da Mina. - Oltre al pezzo sopra citato, avete collaborato con altri? Avete progetti condivisi? Malgioglio, adesso, purtroppo per me e forse meglio per lui, ha intrapreso un’altra strada, di qua, di là, probabilmente gli rende di più. Preferisce fare “Il grande fratello”, “Chiambretti” ecc. Ne abbiamo parlato, abbiamo fatto qualcosa, ma non posso muovermi solo io. L’ho spronato diverse volte, ma ho capito che è inutile. - Una volta, in televisione lei, si è lasciato vincere da un momento di stizza. Ricordo che si parlava de “l’importante è finire” di Malgioglio e ha voluto puntualizzare che c’era anche lei. L’ho ribadito anche di persona, quando gli dissi: “Senti, mi devi fare una cortesia, è vero che stai sempre in televisione, però devi avere il buon gusto di dire: la nostra canzone, no la mia canzone. L’ultima volta è successo in televisione, da Fazio, stava parlando della sua canzone, quando la Berti l’ha bloccato dicendo: “Scusami, ma la canzone non è solo tua, la musica è di Alberto Anelli, che per me ha scritto “Tu sei quello”. - Mi scuso per la domanda intima: le è capitato di piangere e perché? È strano, una volta, mi hanno proposto di cantare le mie canzoni, ce né una che mi ha inciso Iglesias, il testo è di Gerardo Carmine Gargiulo, il titolo “Sono io”. L’ho sempre cantata con superficialità. Quella volta, in sala d’incisione, mentre la cantavo mi sono emozionato fino alle lacrime: è una storia molto cinematografica. Adesso che ricordo un’altra mia canzone su testo di Herbert Pagani che si chiama: ”L’amicizia”. Anche quella mi ha molto emozionato. Mi ha preso perché c’è una frase che dice: “Spero che mio figlio con tua figlia si sposino…”. Questa nostra chiacchierata è stata una specie di autoanalisi, sollecitata da domande abbastanza piccanti. - l’intervista deve essere curiosa, deve entrare nell’anima. Apprezzo! |
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